Dopo i mesi di chiusura forzata da coronavirus, è bello riprendere la normale attività sociale, nonché godereccia. L’occasione è arrivata dall’Accademia della Cucina – delegazione di Castel San Pietro-Medicina, che ha organizzato, con lodevole tempismo, una riuscita Conviviale all’agriturismo Sant’Uberto di Monterenzio (BO).
Protagonista assoluta della giornata è stata la selvaggina da pelo (di gran taglia), che qui, tra le colline bolognesi, trova la massima valorizzazione merceologica e gastronomica.
I plus di Sant’Uberto
Dal 1963 l’azienda Sant’Uberto lavora animali provenienti esclusivamente da fauna selvatica italiana. Tutto ha avuto inizio quasi 60 anni fa, quando il fondatore Valter Aleotti costituì una riserva protetta, compatibile con la collina bolognese. Oggi ci sono i figli Roberto, Tiziana e Patrizia, che mantengono ciò che è stato tramandato loro con amore, ma hanno anche saputo introdurre tante innovazioni tecnologiche.
È stato creato una struttura di macellazione all’avanguardia – il primo centro certificato riconosciuto in Italia – per la lavorazione delle carni degli ungulati selvatici, provenienti esclusivamente dall’attività venatoria in territorio nazionale. Ogni taglio di carne viene lavorato con cura artigianale, per conservare inalterata tutta la sua qualità intrinseca. In questo modo viene garantita l’intera filiera produttiva, dai tempi di frollatura delle carni, al confezionamento sottovuoto del prodotto fresco e al successivo processo di refrigerazione rapida in abbattitore a -30 °C e stoccaggio a temperatura controllata in cella frigorifera a -20 °C.
Il valore della selvaggina
Non è mia intenzione lanciare uno spot a favore del consumo della cosiddetta “carne nera”, ma va anche ricordato che se fino a qualche decennio fa la selvaggina era l’ingrediente principe dei migliori ristoranti d’Italia e del Mondo una ragione ci sarà stata!
Dal gusto saporito, intenso e deciso, la cacciagione è un’ottima alternativa per cucinare piatti di spiccata prelibatezza e originalità. Questa carne è consistente, dal sapore e dagli aromi intensi, con un basso contenuto di grassi e un alto contenuto di omega-3 anti-infiammatori. La selvaggina rappresenta, infatti, una buona fonte di proteine magre, oligominerali come ferro e zinco e vitamina B12.
Le carni di Sant’Uberto offrono molteplici benefici salutistici perché provengono esclusivamente dall’abbattimento di animali selvatici italiani. La vita allo stato brado e un’alimentazione assolutamente naturale conferiscono loro una invidiabile alta qualità.
La caccia entra in cucina
La cacciagione, solitamente, possiede un sapore più intenso e “selvatico” rispetto alle altre carni rosse. Una volta, le ricette tradizionali per la selvaggina evidenziavano pesanti marinature e lunghi tempi di cottura. Oggi bisogna tener conto, invece, che una giusta lavorazione della materia prima fa una grande differenza: le carni correttamente trattate rimangono tenere, anche se cotte pochi minuti, il sapore è delicato, anche se preparate quasi al naturale, con pochi condimenti. Il risultato saranno piatti leggeri e gustosi, con pochi grassi e pochissimo colesterolo e che, nella maggior parte dei casi, si preparano in un tempo limitato.
La selvaggina ha sempre esercitato un grande fascino in cucina, dovuto anche alla sua scarsità in natura. Molti buongustai adorano, poi, il suo sapore intenso ed esclusivo.
Il legame con la selvaggina
Va precisato, però, che il suo legame con l’uomo, quale fonte di sostentamento alimentare, affonda nell’antichità, addirittura agli albori della civiltà umana, quando l’uomo preistorico si cibava di semplice carne cruda cacciata. Le cose sono migliorate nel corso dei millenni, dai babilonesi ai romani, fino all’alto medioevo, dove la caccia, ad esclusivo appannaggio della nobiltà, rappresentava un’importante fonte di approvvigionamento. Nel Rinascimento la caccia è rimasta un divertimento privilegiato della aristocrazia, e via via fino all’Ottocento quando la selvaggina è diventata un ingrediente imprescindibile per la gastronomia ridondante e golosa dell’epoca.
Ai giorni nostri, l’alta cucina ne ha fatto una prelibatezza per gourmet e, da parte mia, devo confessare di esserne un vero patito, tanto da inseguire per chilometri una beccaccia ben frollata o un cinghiale in dolceforte, preziosa ricetta rinascimentale, che impiega erbe aromatiche, spezie, pinoli, uva sultanina e, soprattutto, cioccolato fondente (prima di Colombo il miele).
La cronaca del Convivio
Tornando in cronaca diretta, dopo le raccomandazioni sul distanziamento a tavola fornite al folto gruppo di partecipanti, il delegato dell’Accademia, Andrea Stanzani, ha sottolineato il forte legame “di cucina” che lega la cacciagione alle grandi ricette del passato, ma anche del presente, con grandi interpreti, quali gli stellati “di casa” Maria Grazia Soncini, Igles Corelli, Paolo Teverini e Alberto Bettini. Stanzani ha concluso il suo intervento, ribadendo il senso di questa ripartenza per dare un segnale di fiducia a tutta la ristorazione, che tanto ha sofferto in questi ultimi mesi.
A seguire, la padrona di casa, Lucia, ha tracciato un excursus dell’azienda e presentato le caratteristiche distintive della produzione Sant’Uberto, che comprende, oltre alla lavorazione delle carni di cervi, cinghiali, daini e caprioli, anche la produzione di salumi, sughi e paté in vasetti.
Il tradizionale scampanellio ha dato poi il via al pranzo conviviale, iniziato con un Fantasia di affettati del cacciatore, a base di mortadella e bresaola di cinghiale, salame e tartare di cervo e carne salada di capriolo; a seguire, dei tradizionali Garganelli con ragù di cinghiale. Assai interessante è stata la proposta dei secondi piatti: Tagliata di daino su letto di rucola e grana, e uno squisito Spezzatino di cervo con olive. Parimenti… da urlo il Mascarpone al cucchiaio. I vini in abbinamento sono stati il Pignoletto del Muraglione e il Sangiovese “Ricordi” di Macalè.
Senza ombra di dubbio, una maniera abbastanza impegnativa per ricominciare le escursioni turistico-gastronomiche del 2020 ed esorcizzare la paura del covid-19, ma l’occasione era troppo ghiotta per lasciarsela scappare!
Per digerire – tanto per non farsi mancare niente – una bella escursione “tutta curve” via Raticosa fino a Firenzuola con ritorno in Romagna da Palazzuolo sul Senio e Casola Valsenio. Il magnifico tramonto lungo la Strada della Lavanda ha ripagato di tutte le fatiche del viaggio!
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